Oltre ad arterie e vene, il nostro corpo è percorso da un terzo tipo di vasi: i vasi linfatici. Questo terzo sistema è strettamente interconnesso con i primi due in quanto recuperano parte del liquido fuoriuscito dai capillari sanguiniferi, convogliandolo nei vasi linfatici e facendolo passare nei linfonodi prima di riportarlo nelle vene.
Il liquido presente in questi vasi si chiama linfa ed è composto da:
Come già detto, la linfa inizialmente raccolta e convogliata nei vasi linfatici passa attraverso numerose stazioni di filtraggio, tanto più numerose quanto più ci si trova alla “periferia” del corpo. Queste stazioni di filtraggio sono i linfonodi: formazioni generalmente rotondeggianti di dimensioni variabili che, in stato di normale attività in un individuo sano, misurano tra i 3 e i 6 mm di diametro.
(Possiamo averne esperienza quando, durante un’influenza percepiamo delle “palline” di tessuto più rigido e dolenti alla palpazione nella zona sottomandibolare o sottoascellare. Si tratta di linfonodi che hanno aumentato le loro dimensioni per far fronte all’infiammazione in corso e che una volta guariti ritorneranno di dimensioni normali e di consistenza indistinguibile dai tessuti circostanti).
Il linfodrenaggio è una tecnica di massaggio che si effettua con pressioni molto lievi ed assolutamente non dolorose che ha lo scopo di stimolare il drenaggio della linfa inducendone lo scorrimento nei vasi linfatici, il passaggio attraverso i linfonodi ed infine il riassorbimento nel circolo venoso.
Tutto questo avviene grazie a movimenti leggeri e ripetuti che hanno l’effetto secondario di rilassare il paziente.
La linfa, infatti, non circola grazie alla spinta di un “motore”, come avviene con il cuore per il sistema circolatorio, e la struttura dei suoi vasi ha una parte muscolare che è ridotta rispetto a quella di vene e arterie, la cui contrazione può spingere efficacemente il liquido in esse contenuto.
La circolazione della linfa nei vasi linfatici è resa possibile da:
Lo scorrimento della linfa nei vasi è quindi più frequentemente soggetto a fenomeni di stasi: la linfa si accumula negli spazi interstiziali causando la formazione di un edema (e quindi di un gonfiore localizzato o diffuso un una zona del corpo) che crea un circolo visione schiacciando i vasi linfatici bloccandone il flusso.
Le tecniche di linfodrenaggio sono indirizzate a stimolare il fisiologico scorrimento della linfa portando così alla riduzione dell’edema.
Il linfodrenaggio è particolarmente indicato nei casi di:
Generando i seguenti effetti positivi:
Il terapista specializzato in linfodrenaggio avrà un’approfondita conoscenza anatomica che gli permette l’individuazione delle stazioni di linfonodi verso cui indirizzare la linfa, permettendone il drenaggio. La valutazione del singolo caso da parte del professionista è fondamentale per individuare il percorso terapeutico più adatto.
A cura del dott. Lorenzo Madini
TENDINOPATIA: SVILUPPO FISIOPATOLOGICO E FASI DELLA RIABILITAZIONE.
La tendinopatia è una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di dolore localizzato a livello del tendine che si presenta a seguito dell’applicazione di un carico meccanico su quest’ultimo.
Le problematiche a carico del tendine risultano essere molto comuni e possono coinvolgere diverse fasce d’età con richieste funzionali completamente differenti. Per esempio, la tendinopatia è una delle cause di infortunio più comuni nella popolazione sportiva sia professionistica che amatoriale. D’altro canto, anche la popolazione non sportiva può andare incontro a una tendinopatia a seguito di lavori pesanti con movimentazioni di carichi o a lavori che impongono una posizione mantenuta a lungo nel tempo.
Nonostante siano problematiche molto comuni, vi è ancora molto confusione a riguardo. In primo luogo, spesso si sentono molti nomi differenti per rivolgersi a problematiche del tessuto tendineo: tendinite, tendinosi etc. Per poter essere maggiormente precisi e per avere un linguaggio comune condiviso, il termine corretto con cui rivolgersi a queste problematiche è tendinopatia.
Anche per quanto riguarda le fasi della riabilitazione vi è ancora molta confusione.
Tuttavia, prima di parlare di riabilitazione, è necessario fare un passo indietro per comprendere cosa sia il tendine e quali processi portino allo sviluppo della tendinopatia.
Il tendine è un elemento di tessuto connettivo che crea un collegamento tra il muscolo e l’osso. Esso agisce come trasmettitore di forze dal muscolo all’osso generando un movimento articolare.
Esso è composto da tre pilastri anatomici principali: il collagene, la matrice-extracellulare e il tenocita.
Il tendine è una struttura in continuo adattamento che risponde agli stimoli esterni applicati; questi ultimi rappresentano lo stimolo e lo starter per avviare tutti i processi di sintesi e degradazione di nuovo collagene che sono alla base dell’adattamento del tessuto tendineo.
Tuttavia, il tendine non è sempre in grado di tollerare lo stress che viene indotto dal carico esterno somministrato al tendine nel corso delle attività compiute nella giornata. Per questo motivo, il processo patologico alla base dello sviluppo della tendinopatia inizia a seguito di un errato dosaggio del carico, sia esso troppo (overload) o troppo poco (underload).
Per essere maggiormente precisi, un tendine normale e sano può sviluppare i sintomi e andare incontro a un processo patologico in due principali situazioni:
Per fare un esempio, è molto frequente nel runner amatoriale lo sviluppo di una tendinopatia achillea. Un classico meccanismo con cui la tendinopatia si può sviluppare è la ripresa non graduale della corsa dopo un periodo di infortunio o dopo uno stop di alcuni mesi cercando di eguagliare subito la performance che si aveva prima dello stop. Dal momento che il tendine non è più abituato a uno stimolo così intenso, il carico somministrato supera quella che è la capacità di carico del tendine in quel momento e questo, se protratto nel tempo, può portare allo sviluppo della tendinopatia.
A questo punto possiamo finalmente parlare di riabilitazione della tendinopatia, un altro argomento su cui vi sono ancora molti dubbi. A volte viene consigliato il riposo e l’astensione completa dall’attività sportiva fino alla scomparsa dei sintomi. Tuttavia, questo approccio non è assolutamente consigliabile. Infatti, qualora anche i sintomi migliorino in seguito al riposo forzato, non appena ripresa l’attività e non appena ridato carico al tendine, quest’ultimo andrà incontro nuovamente ai processi sopra descritti facendo ritornare i sintomi.
Di conseguenza, il punto chiave della riabilitazione della tendinopatia è la corretta gestione del carico.
Prendendo come esempio il runner che abbiamo citato prima, la riabilitazione di quest’ultimo potrebbe seguire le seguenti quattro fasi.
In primo luogo, l’obiettivo della prima fase in cui prevale l’irritabilità del tendine è quello di andare a ridurre il dolore con una diminuzione del carico di lavoro. Per fare ciò l’esercizio terapeutico risulta essere la strategia migliore per il fisioterapista; in particolare, l’esercizio isometrico risulta molto utile per andare a ridurre il carico, oltre ad avere un effetto analgesico.
In seguito, una volta ridotta la reattività del tendine, l’obiettivo della seconda fase è quello di recuperare progressivamente la forza dell’unità muscolo-tendinea andando a migliorare la capacità di carico del tendine. In questo caso, l’esecuzione di esercizi dinamici in modo lento e con un carico esterno progressivamente sempre più elevato rappresenta un’ottima soluzione.
Una volta raggiunto un buon livello di forza ed una riduzione netta del dolore, è possibile aggiungere esercizi veloci e dinamici andando a migliorare la capacità del tendine di accumulare energia.
Infine, nell’ultima fase si dovranno inserire esercizi non solo di accumulo ma anche di rilascio energetico (come per esempio i salti). Questi ultimi sono gli esercizi in cui la richiesta di lavoro al tendine è maggiore, ma anche in cui la funzione del tendine raggiunge il suo apice: accumulare rapidamente energia (per esempio nel caricamento di un salto) per poi rilasciare quest’ultima in modo massivo (il salto vero e proprio). Tuttavia, per poter eseguire i cosiddetti esercizi di stretch-shortening cycle è necessario aver seguito le fasi precedenti in modo meticoloso e preciso, andando a gestire e dosare correttamente il carico dato al tendine.
Per poter passare da una fase all’altra della riabilitazione è molto utile assegnare al paziente un esercizio specifico per il tendine (come può essere un calf raise monopodalico per il tendine d’Achille) da eseguire ogni giorno allo stesso orario; al termine del test, il paziente dovrà segnare il dolore che prova in una scala incrementale da 0-10; qualora il dolore si assesti all’interno di una zona sicura (da 0-3) o accettabile (da 4-5), è possibile incrementare il carico e passare alla fase successiva. Qualora il dolore si assesti in una zona ad alto rischio (6-10), è necessario fare un passo indietro e ridurre il carico per evitare di peggiorare i sintomi del paziente e rendere ancora più irritabile il tessuto tendineo.
Per concludere, la tendinopatia è una condizione che può essere estremamente debilitante in quanto può portare all’astensione dalla propria attività sportiva o lavorativa. La riabilitazione della tendinopatia segue dei passaggi semplici ma necessita di grande precisione e attenzione nella gestione del carico somministrato al tessuto tendineo per poter andare a ridurre il dolore e tornare ai livelli di performance pre-infortunio.
A cura del dott. Pietro Guarinoni
L’osteopatia, una disciplina che utilizza tecniche manuali per migliorare la funzionalità del corpo e promuovere l’autoguarigione, è particolarmente utile durante la gravidanza e nella preparazione al parto. Durante la gravidanza, il corpo della donna subisce numerosi cambiamenti fisiologici e biomeccanici che possono causare discomfort e dolore. L’osteopatia può aiutare a gestire questi cambiamenti, migliorando il benessere della futura mamma e favorendo un parto più agevole.
Cambiamenti fisiologici e biomeccanici in gravidanza
Durante la gravidanza, l’aumento di peso e le modifiche ormonali portano a cambiamenti nella postura e nella biomeccanica del corpo. La colonna vertebrale, il bacino e le articolazioni devono adattarsi per sostenere il peso crescente del feto. Questo può portare a dolore lombare, sciatalgia, tensione pelvica e altri disturbi muscoloscheletrici. Inoltre, l’ormone relaxina, che viene rilasciato per allentare i legamenti del bacino in preparazione al parto, può causare instabilità articolare e ulteriore discomfort.
Benefici dell’osteopatia nella preparazione al parto
L’osteopatia offre un approccio sicuro e non invasivo per aiutare le donne in dolce attesa a gestire questi cambiamenti e prepararsi al parto. Ecco alcuni dei principali benefici dell’osteopatia durante la gravidanza:
Ogni gravidanza è unica e richiede un approccio personalizzato. L’osteopata valuta attentamente la condizione fisica della futura mamma e sviluppa un piano di trattamento su misura per gestire le sue specifiche esigenze. Questo approccio individualizzato garantisce che il trattamento sia sicuro ed efficace, tenendo conto dei cambiamenti fisiologici che avvengono in ogni trimestre della gravidanza.
L’osteopatia può essere integrata con altri tipi di assistenza prenatale per fornire un supporto completo. L’osteopata lavora spesso in collaborazione con ostetriche, ginecologi, fisioterapisti e altri professionisti della salute per assicurare che la futura mamma riceva il miglior trattamento possibile. Questa collaborazione multidisciplinare assicura che tutti gli aspetti della salute della mamma e del bambino siano considerati, fornendo un ambiente di supporto completo durante tutta la gravidanza.
A cura della dott.ssa
Lavinia Arnone
Bene o male a tutti nella vita è capitato di avere una distorsione di caviglia, ma non tutti sanno cosa succede quando questo spiacevole infortunio ci fa visita.
Una distorsione alla caviglia si verifica quando quest’ultima subisce un brusco movimento che stressa le strutture articolari, ovvero i legamenti, i muscoli e i tendini che avvolgono la caviglia, arrivando vicino o oltre i limiti della sua possibilità di movimento.
Le distorsioni della caviglia sono una delle lesioni più comuni, specialmente durante le attività fisiche o gli sport.
La gravità di una distorsione della caviglia può variare a seconda dell’entità del danno e alle strutture articolari.
Ci sono tre gradi di distorsioni della caviglia:
– Grado 1: leggera distorsione, con leggero allungamento o rottura microscopica dei legamenti. Ci può essere minimo dolore e gonfiore e, di solito, è possibile camminare.
– Grado 2: distorsione moderata, che comporta una parziale lacerazione dei legamenti. Ciò può causare dolore moderato, gonfiore e lividi, insieme a difficoltà a sopportare il peso sulla caviglia interessata.
– Grado 3: grave distorsione, con strappo completo o danni significativi ai legamenti. Ciò si traduce in forte dolore, gonfiore, ematomi e può esitare in instabilità della caviglia. Camminare o sopportare il peso sulla caviglia ferita può essere estremamente difficile o impossibile.
Le distorsioni della caviglia prevedono un approccio differente in base al grado di trauma, come descritto precedentemente. Tuttavia, c’è un passaggio comune per tutti i gradi: la fase di protezione.
Tipicamente in questa fase si utilizza un protocollo che mira alla gestione della fase infiammatoria iniziale. In gergo viene chiamato PRICE che corrisponde a: protezione, riposo (funzionale), ghiaccio, compressione ed elevazione.
Tuttavia le distorsioni lasciano dietro di sè effetti sui legamenti e sulla muscolatura che necessitano un intervento riabilitativo che consenta di riprendere efficacemente l’attività preferita, o semplicemente in normali gesti della quotidianità.
In base alla gravità ed alla fase di trattamento, il fisioterapista proporrà differenti categorie di esercizi per ripristinare la miglior funzionalità della caviglia.
Tra le classi di esercizi possiamo descrivere:
– Esercizi di mobilità: sono esercizi delicati per ripristinare la flessibilità e la gamma di movimento nell’articolazione della caviglia.
– Allenamento della forza: se il dolore lo permette, si iniziano gli esercizi di rafforzamento per stabilizzare la caviglia e prevenire le distorsioni future.
– Allenamento di equilibrio e propriocezione: è importante incorporare esercizi per il migliorare l’equilibrio e la propriocezione (consapevolezza della posizione del corpo nello spazio). Questi esercizi insegneranno strategie ed automatismi che sono efficaci a prevenire nuovi infortuni.
– Esercizi funzionali: la progressione graduale prevede l’inserimento di esercizi funzionali che imitano le attività che svolgi nella vita quotidiana o negli sport. Questo aiuta a riqualificare la caviglia per normali modelli di movimento.
– Ritorno all’attività: una volta riacquistato la forza, la flessibilità e l’equilibrio, sarà possibile reintrodurre gradualmente le attività che coinvolgono la caviglia. Generalmente questa fase prevede iniziali attività a basso impatto ed un successivo graduale aumento dell’intensità.
Il percorso riabilitativo e di riatletizzazione è molto importante perché, se non adeguatamente trattate, le distorsioni di caviglia potrebbero esitare in due problemi a medio/lungo termine: un rischio fino a sei volte più alto di incorrere in nuove distorsioni e la lassità articolare, che con il tempo può condurre ad artrosi secondaria della caviglia.
A cura del dott. Andrea Tarantino
L’incontinenza urinaria è una condizione che viene percepita principalmente come un disturbo della persona anziana, ma è più comune di quel che si pensi: ne soffrono ragazze in età adolescenziale, giovani donne e nella mezza età, donne in menopausa.
Si parla di incontinenza, infatti, anche quando si fa fatica a trattenere l’urina durante piccoli sforzi come starnutire, ridere, tossire, saltare, correre e sollevare pesi.
L’esigenza di indossare il salvaslip nelle circostanze in cui è necessario svolgere attività come la corsa o la lezione di kick boxing in palestra non deve essere considerata la normalità, deve anzi essere spia di un problema da indagare più a fondo, legato alla salute del pavimento pelvico.
In particolare, si ha incontinenza quando i muscoli del pavimento pelvico non hanno la capacità di fare ciò a cui sono deputati, ovvero contenere gli organi (utero, vescica e retto), l’urina e le feci.
Più che di una debolezza muscolare in sé, si tratta di:
un problema di propriocezione, ovvero la difficoltà ad individuare e percepire la muscolatura interna ed esterna del pavimento pelvico;
una dissinergia con il diaframma respiratorio, responsabile, assieme a quello pelvico, di regolare le pressioni endoaddominali, per cui si ha un’eccessiva spinta sulla parete addominale e sugli organi pelvici che porta alle perdite durante gli sforzi;
uno schema posturale tendente al tilt pelvico anteriore che predispone alla lassità o ipotono delle strutture e alla difficoltà nel controllo muscolare durante il movimento.
La fisioterapia è una risorsa cruciale nella riabilitazione dell’ipotono pelvico.
La paziente e la fisioterapista, infatti, possono costruire un percorso cucito sulle esigenze uniche e personali di ognuna:
insieme, si prendono in considerazione le caratteristiche fisiche e la storia di vita (gravidanze, cali ponderali, infortuni pregressi, dolori presenti in altre zone del corpo, stress, ansia e depressione) che plasmano e segnano il corpo in un modo che è differente e cambia da persona a persona;
si lavora sulla percezione corporea, l’esplorazione delle aree del corpo difficilmente percepite, creando una mappa mentale della zona con l’aiuto del movimento del bacino e della colonna vertebrale;
si riscopre la respirazione diaframmatica, ripristinando la sinergia tra i due diaframmi e una corretta pressione endoaddominale che verranno associate al movimento dei vari segmenti corporei;
si procede con l’attivazione del muscolo trasverso dell’addome e alla coordinazione con la contrazione pelvica.
Questa è la base di lavoro che ci consente di procedere all’automatizzazione delle attivazioni muscolari di core e pavimento pelvico durante le attività della vita quotidiana, come sollevare piccoli pesi o camminare a passo svelto senza perdite urinarie, per poi trasferire queste abilità anche in attività più complesse come il salto, la corsa, l’esercizio fisico in palestra.
Le perdite urinarie, anche piccole, non sono normali.
Risolviamole insieme!
A cura della dott.ssa
Giulia Tosques
Durante la gravidanza il corpo della donna subisce importanti cambiamenti, soprattutto nel terzo trimestre, portando a delle modifiche della postura. Infatti, l’aumento del peso molto spesso in combinazione ad una riduzione del movimento, può instaurare o accentuare alterazioni che sono alla base del dolore lombare in gravidanza.
Questo avviene perché i muscoli e i legamenti, per azione di relaxina ed estrogeni (ormoni protagonisti della gravidanza), si lasciano andare per garantire al bambino più spazio e comodità e permetterne il suo passaggio all’interno del canale del parto nella fase finale della gravidanza. L’aumento del volume dell’utero crea un allungamento della muscolatura addominale, che porta ad un maggior sforzo sulla muscolatura lombare che deve così cercare di compensare la mancanza di tono e forza addominale. Inoltre, la donna in gravidanza, ricercando il suo nuovo punto di equilibrio e stabilità posturale, aumenta la curva lombare (iperlordosi) e il bacino si inclina in avanti. Ne consegue un aumento della tensione di legamenti, muscoli e articolazioni del bacino e una riduzione della stabilità articolare, facendo così insorgere la sintomatologia dolorosa.
Ecco perché il dolore lombare durante la gravidanza è molto frequente ed è una delle principali condizioni per cui la gravida si affida all’osteopatia.
L’osteopatia infatti, può avere un’influenza positiva e quindi incidere sulla qualità di vita delle donne, andando a ridurre l’intensità dei loro sintomi e aiutandole ad affrontare nel miglior modo il periodo della gravidanza. Inoltre, il trattamento osteopatico riduce l’alterazione della funzionalità della colonna vertebrale, che spesso è caratteristica del terzo trimestre, riduce il dolore e l’incidenza di sviluppare complicanze durante l’intero arco della gravidanza, il travaglio e il parto.
A cura della dott.ssa
Lavinia Arnone
Il mondo dello sport è spesso caratterizzato da momenti di gloria e successo, ma anche da sfide e infortuni. Uno degli infortuni più temuti è la lesione del legamento crociato anteriore (LCA), un evento che può mettere alla prova la determinazione e la forza di un atleta.
In questo articolo analizzeremo il ritorno in campo dopo un infortunio al LCA, rispondendo ad alcune domande tipiche che l’atleta si pone ed esplorando il ruolo della Riatletizzazione sport specifica prima del ritorno al gioco.
A cosa serve il Legamento Crociato Anteriore?
Il LCA è uno dei principali legamenti stabilizzatori del ginocchio, una struttura fibrosa che ha la funzione di stabilizzare l’articolazione, impedendo lo scivolamento anteriore della tibia rispetto al femore. Contribuisce a mantenere la stabilità durante movimenti come la corsa, il salto e i cambi di direzione.
Un infortunio a questo legamento può rappresentare una sfida significativa per uno sportivo, richiedendo un processo di recupero ben strutturato e guidato.
Come viene impostato il recupero post infortunio?
Numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato l’efficacia di un programma riabilitativo che rispetti degli step fondamentali per il recupero ottimale dopo questo infortunio:
Il ritorno in campo dopo un infortunio al LCA richiede quindi pazienza, impegno e un approccio ben strutturato basato su evidenze scientifiche. Gli esercizi terapeutici, focalizzati sul rinforzo muscolare, la stabilità e la flessibilità, giocano un ruolo cruciale nel facilitare una ripresa completa.
Quanto tempo ci vuole per tornare in campo?
Questa è una delle domande che più frequentemente ci vengono fatte.
La risposta più giusta è: dipende!
I tempi di recupero per tornare a fare sport dopo un intervento di ricostruzione del legamento crociato anteriore (LCA) possono variare in base a diversi fattori, tra cui l’estensione del danno, il tipo di intervento chirurgico, la compliance del paziente alla riabilitazione, il tipo di sport praticato, il livello atletico in termini di forza e mobilità con cui il paziente si presenta all’operazione ecc.
Tuttavia, secondo l’evidenza scientifica, possiamo fornire una stima generale basata sulle linee guida comuni:
In genere, il periodo necessario per tornare in campo dopo la ricostruzione del LCA può durare da 6 a 12 mesi, con alcune variazioni individuali.
Il processo di recupero può variare notevolmente da individuo a individuo.
Un fattore che in più studi è risultato efficace per una riduzione notevole dei tempi di recupero è la cosiddetta fase preoperatoria, una rieducazione funzionale che consente al paziente di presentarsi all’operazione nella migliore delle condizioni in moda tale da poter recuperare del tempo in fase post operatoria.
Qual è il rischio di farsi male di nuovo?
Le ricerche scientifiche indicano che, nonostante il ritorno in campo sia spesso riuscito con successo, ci sono rischi di recidive o infortuni al LCA. Le percentuali di recidive possono variare, ma alcuni studi suggeriscono che possono verificarsi in una percentuale compresa tra il 5% e il 25%.
Alcuni fattori che possono influenzare la probabilità di recidiva sono:
Il ruolo fondamentale della Riatletizzazione
La riatletizzazione è un aspetto cruciale (e spesso trascurato) nel processo di ritorno allo sport dopo un intervento di ricostruzione del legamento crociato anteriore (LCA). Questo approccio personalizzato alla riabilitazione tiene conto delle esigenze specifiche e delle richieste fisiche dello sport che l’atleta pratica.
Ecco alcune ragioni per cui la riatletizzazione è così importante in questo contesto:
La riatletizzazione risulta quindi uno step fondamentale perchè l’atleta possa ritornare in modo sicuro, efficace e performante al proprio sport dopo un intervento di ricostruzione del LCA.
Fonti:
A cura del dott. Mattia Terranova